Covid19 e contratti: quali conseguenze?

04 novembre 2020
Bar, ristoranti, esercizi Commerciali chiusi dai DPCM: è possibile rinegoziare il canone di affitto? Questi ed altri casi di contratti conclusi prima dello scoppio della Pandemia, nei quali il rapporto di dare - avere è stato sconvolto dai provvedimenti di profilassi sanitaria nell' articolo che proponiamo ai nostri lettori.

La convivenza con il virus, che ormai si prolunga da otto mesi, ed i provvedimenti amministrativi di limitazione dei movimenti e delle attività commerciali adottati dalle autorità, hanno posto ai cittadini, agli imprenditori ed ai giuristi alcuni problemi del tutto nuovi: come regolarsi quando l’ esecuzione di un contratto sia resa difficile, o addirittura impossibile, dalla imposizione della quarantena generalizzata?

Senza pretendere di addentrarci in tecnicismi vorremmo, in questo articolo, esaminare alcune situazioni tipiche, che esulano quelle espressamente disciplinate dalla normativa emergenziale (come ad esempio i mutui o i contratti turistici e con agenzie di viaggio).

La prima norma che ci interessa è l’ art. 1463 c.c.,  che dà alla parte la possibilità di risolvere il contratto in caso di impossibilità sopravvenuta (si badi, la norma allude ad una impossibilità definitiva, e non solo temporanea). Potremmo pensare, ad esempio, all’ obbligo di consegnare un bene deperibile, all’ organizzazione di un concerto o di un convegno il cui argomento sia di stretta attualità, e, più in generale, a tutti quei contratti in cui le parti stesse hanno indicato che il termine rappresenta un requisito essenziale. Qualora queste prestazioni siano state rese impossibili dalla quarantena il contratto potrà essere risolto a fronte della  restituzione (prevista dall’ art. 1463 c.c.) della controprestazione, se già adempiuta (ad esempio il prezzo già pagato).

Diverso il caso in cui la prestazione dovuta diventi solo parzialmente o temporaneamente impossibile: in questi si applicherà l’ art. 1464. Cerchiamo anche qui di citare un po’ di casistica: ad esempio potrebbero rientrare in questo ambito le attività di docenza privata, i corsi, e le altre prestazioni per le quali è stata possibile la digitalizzazione, almeno parziale. Oppure (per le prestazioni temporaneamente impossibili) gli abbonamenti a palestre, piscine, club, e simili. In questi casi il creditore della prestazione può chiedere la riduzione della controprestazione (tipicamente: il prezzo), sospenderla o addirittura recedere dal contratto (ma in questo caso dovrà dimostrare di non avere interesse alla prestazione differita o ridotta per un motivo oggettivo).

Alcuni interpreti hanno cercato di fare rientrare nel novero della casistica sulla temporanea impossibilità anche il caso dell’ affitto commerciale (si pensi ad un negozio, o ad un ristorante, chiuso per la quarantena). E’ la strada scelta, ad esempio, dal Tribunale di Venezia (sez. I Civile, decreto n. 5480/20; depositato il 28 luglio) che ha respinto una domanda di sfratto per morosità intimato dal proprietario ad un bar, stabilendo che, in base appunto all’ art. 1464 c.c., si dovesse procedere alla riduzione del canone di affitto per il periodo di sospensione forzata dell’ attività. Il problema di questa soluzione è tecnica: infatti la “chiusura” da parte delle autorità non elimina (o riduce) la prestazione del locatore (l’ inquilino continua ad avere il possesso dell’ immobile), ma la rende inutile.  

Esiste, è vero, un’ altra strada, che è quella offerta dall’ art. 1467 c.c. per i contratti con prestazioni continuate, periodiche o differite. Valendosi di questo strumento l’ inquilino, dimostrata l’ eccezionalità dell’ evento che lo ha interessato, potrebbe recedere unilateralmente dal contratto. Purtroppo, però, il recesso è l’ unico rimedio offerto da questo articolo, non essendo contemplata una possibile riduzione del canone. Spesso l’ aspirazione dell’ inquilino non è tanto recedere dal contratto, quanto riequilibrare il rapporto, ottenendo una riduzione del prezzo.

A questo punto, al fine di tutelare la posizione della parte svantaggiata dalla pandemia è intervenuto l’ ufficio massimario della Corte di Cassazione, che ha avanzato una innovativa proposta di interpretazione del sistema (relazione tematica 8 luglio 2020, n. 56).  In estrema sintesi, facendo perno sull’ obbligo di buona fede (art. 1175 c.c. e 1375 c.c.) la Cassazione giunge a fissare, in capo al proprietario dell’ immobile, un “obbligo” di rinegoziare il contratto concedendo all’ inquilino una riduzione del canone di affitto per il periodo di chiusura forzata. Tale ipotesi di lavoro (che, lo ricordiamo, non ha né la cogenza della norma, né  l’ autorevolezza di un arresto di Cassazione) è stata recentemente fatta propria dal Tribunale di Roma (sez. VI Civile, ordinanza 27 agosto 2020). La corte capitolina ha concesso ad una catena di ristoranti una riduzione del canone del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20% per tutti i mesi successivi, fino a marzo 2021. Si tratta di un precedente indubbiamente interessante, che attende comunque il conforto o il dissenso di una casistica più ricca che si ritiene non mancherà presto di arrivare.

Brutte notizie, in conclusione, per i tanti che sono divenuti inadempienti non, direttamente, a causa della pandemia, a per le conseguenze economiche della stessa: disoccupazione, perdita di redditi. Si può fare il caso, fra i tanti, della restituzione di un prestito, o del pagamento del canone di affitto della casa di abitazione. La cosiddetta “impotenza finanziaria” infatti, non integra impossibilità oggettiva, ma solo soggettiva, della prestazione, motivo per il quale non è considerata motivo valido per la risoluzione del contratto, né per la sua rinegoziazione, o giustificazione accettabile per l’ eventuale inadempimento.

 

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